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Storia e organizzazione della Biennale di Venezia

Stefano Cagol

Abstract

The Venice Biennale is an exhibition of contemporary art with a very complex and ever-changing history that has often been determined by the great events that have marked the XX century. Initially dedicated especially to European, North American and Japanese art, with the 1993 edition (“Punti cardinali dell’arte”) the Biennale assumes a truly international dimension. In fact, from that moment on, the Biennale will begin to pay more and more attention to issues directly linked to globalisation and post-colonialism.

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La Biennale di Venezia è una mostra di arte contemporanea dalla storia complessa e ricca di cambiamenti, spesso influenzata dai profondi sconvolgimenti storici che hanno segnato il XX secolo. Dedicata inizialmente per lo più all’arte di Europa, America Settentrionale e Giappone, la Biennale di Venezia comincia ad assumere una dimensione veramente internazionale a partire dall’edizione del 1993 (“Punti cardinali dell’arte”) recependo in maniera sempre più diretta le problematiche legate al tema della globalizzazione e del post-colonialismo.

La Biennale di Venezia nasce dall’esigenza di realizzare tre differenti obiettivi: aggiornare il gusto degli artisti veneziani, reinserire la città all’interno dei dibattiti culturali internazionali in corso e rilanciare le attività turistiche e commerciali. Aperta ufficialmente nel 1895 per celebrare le nozze di Umberto I e Margherita di Savoia, la Biennale raccoglie l’eredità delle esposizioni promotrici che si organizzavano in diverse città con cadenza irregolare dall’unità d’Italia in poi. A differenza di queste, la Biennale si inserisce subito in un contesto internazionale, sviluppando una struttura che, allontanandosi dal modello della promotrice, si avvicina a quello delle grandi esposizioni internazionali.
Alla prima mostra, vengono invitati a esporre le loro opere gli artisti europei più famosi dell’epoca  come Gustave Moreau, Edward Burne-Jones e Max Liebermann, dimostrando come le tendenze simboliste e il clima culturale mitteleuropeo presenti nella città lagunare, si riflettessero nelle scelte artistiche delle prime biennali. 
All’interno dell’area dei Giardini di Venezia viene costruito il Padiglione Pro Arte, dove viene dedicata una stanza a ciascuna regione italiana, accanto ad alcune sale che ospiteranno le opere di artisti esteri. 
Il successo internazionale delle prime esposizioni comporta la necessità di ampliare gli spazi dedicati alle singole rappresentanze straniere. Inizia così la costruzione di una serie di padiglioni che uniformeranno definitivamente la Biennale al modello delle grandi esposizioni internazionali. Queste ultime dal 1876, al Fairmount Park di Philadelphia, erano organizzate in singoli edifici dedicati a ciascuna nazione. Il Belgio, nel 1907, costruisce a proprie spese il primo padiglione, seguito poi da Olanda e Spagna. Nel corso del secolo verranno eretti 27 edifici, l’ultimo dei quali, in ordine di tempo, appartiene alla Corea del Sud ed è del 1995. I Giardini di Venezia vengono così a costituire una sorta di rappresentazione geopolitica del mondo, in cui compaiono però le grandi potenze europee e nord americane accanto ad altri stati ad esse legate da interessi di diversa natura (politica, economica o culturale).


La storia dei primi trent’anni della Biennale è legata a tre figure fondamentali: Riccardo Selvatico, Antonio Fradeletto e Vittorio Pica. Il primo, sindaco di Venezia nel 1895 e docente all’Accademia di Belle Arti, con la propria determinazione rende possibile la creazione in tempi brevissimi dell’istituzione Biennale, strappando la città dal lento declino economico e culturale a cui sembrava destinata dalla caduta della Repubblica.
Il secondo, segretario generale dell’istituzione fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale è il responsabile delle scelte culturali dei primi anni di vita della Biennale. Sul piano artistico, grande attenzione viene data al contesto culturale mitteleuropeo e alle tendenze pompiers presenti nell’ambiente artistico veneziano. Per contrastare questa deriva accademica priva di effettivo legame con le tendenze più innovative in atto in Europa e a Venezia, Nino Barbantini, giovane critico a capo della neonata Opera Bevilacqua La Masa, dà vita a una serie di esposizioni a Ca’ Pesaro riunendo alcuni dei più interessanti giovani artisti del contesto veneziano. 
Dopo una pausa forzata a causa della Prima Guerra Mondiale, la Biennale riapre i battenti nel 1920 con un nuovo segretario generale in carica fino al 1926, il terzo protagonista dei primi anni della Biennale: Vittorio Pica. Uno dei principali critici italiani dell’impressionismo, Pica è una figura determinante per l’apertura dell’istituzione verso nuovi contesti culturali. Nel 1922 accanto a un’esposizione di Modigliani, Pica allestisce la sezione “Mostra della scultura negra”, presentando diverse sculture provenienti dall’Africa che avevano ispirato le opere di numerosi artisti europei.
Lo stesso anno, con la Marcia su Roma, Benito Mussolini viene nominato capo del governo, dando inizio alla dittatura fascista in Italia. Con alcuni anni di ritardo, il Fascismo, dopo essersi inserito in tutti i gangli vitali della politica e della società italiana, dà inizio tramite Antonio Maraini a una serie di trasformazioni che segneranno per sempre il futuro dell’istituzione. 
Con la fine degli anni ’20, infatti, inizia una massiccia organizzazione delle politiche culturali e artistiche dello stato italiano e viene data notevole importanza agli eventi di massa, come le esposizioni. Antonio Maraini, segretario dell’organizzazione nazionale fascista degli artisti, intuisce le potenzialità di eventi come la Biennale e le esposizioni d’arte, e organizza una struttura piramidale che dalle città italiane, attraverso mostre, concorsi e premi portava gli artisti più meritevoli al vertice degli eventi espositivi: la Quadriennale romana, dedicata ad artisti italiani e la Biennale di Venezia, l’ufficiale vetrina internazionale attraverso cui lo stato fascista si propone al resto del mondo come il modello dei nuovo ordine imperiale guidato da Mussolini.
Nel 1928 Maraini, con l’appoggio del partito e del Duce, viene nominato segretario generale della Biennale, entrando presto in conflitto con il Podestà veneziano a causa dell’impronta troppo provinciale data dall’ambiente veneziano alla manifestazione. Nello stesso anno nasce il primo nucleo dell’archivio storico di arte contemporanea (A.S.A.C) e nel 1930, con un Regio Decreto, la Biennale viene trasformata in ente autonomo, escludendo di fatto il Comune di Venezia dalla gestione diretta dell’istituzione. Viene designato come Presidente uno dei più potenti uomini italiani: il Conte Volpi di Misurata. Figura carismatica, di origine veneziana, il Conte è uno dei principali fautori della ripresa economica della città, grazie agli ingenti finanziamenti per la creazione del polo industriale di Marghera e allo sviluppo dell’industria alberghiera al Lido di Venezia. Durante la presidenza del Conte Volpi, la Biennale istituisce tre nuovi settori culturali dedicati alla musica (1930), al cinema (1932) e al teatro (1934). 

Nei primi anni ’30 la politica del governo fascista è tesa a estendere il proprio controllo sulle strutture che reggono il sistema artistico italiano: in questi anni il Fascismo mantiene una posizione di ambigua apertura rispetto ai contenuti e alle scelte artistiche delle esposizioni: l’ansia di ribellione alla cultura predominante del futurismo convive con il legame alla tradizione artistica italiana promosso dagli artisti di Novecento.    Con la fine degli anni ’30, l’avvicinamento alla Germania Nazista e l’isolamento politico e culturale scelto dall’Italia, iniziano una serie di pressioni e controlli anche sulle selezioni operate per gli artisti invitati alla Biennale. 
Il 1938 è una data fondamentale nella storia della Biennale: segna infatti il definitivo controllo da parte dello stato centrale della Biennale. L’implicazione di questo evento andrà ben oltre la storia dell’Italia Fascista, lambendo a lungo anche la storia della Repubblica Italiana. 
Con questa nuova riforma avviene una presa di controllo diretto della gestione dell’istituzione e della sua programmazione da parte del Partito fascista, del Ministero della Cultura Popolare, di quello del Tesoro e del Turismo, che svuotano di qualsiasi senso  la dizione di "ente autonomo". 
Le edizioni successive alla riforma, fino al 1944 rispecchiano la nuova politica culturale del regime, e propongono solo opere in linea con i valori propugnati dal fascismo.
Nel 1946, a un anno dalla fine della guerra, la Biennale Cinema è il primo settore in grado di riprendere le proprie attività. Gli spazi dei Giardini sono utilizzati durante il conflitto come magazzini dell’Istituto Luce, e solo nel 1948 Giovanni Ponti, eletto Commissario Straordinario della Biennale, è in grado di riaprire le attività del settore artistico. Chiamando a sé i più autorevoli critici italiani, Ponti nomina Rodolfo Pallucchini - professore di Storia dell’Arte Moderna all’Università di Padova - Segretario Generale della Biennale di Arti Figurative, contando non solo sulla sua ampia cultura ma anche sulla grande esperienza di organizzatore di mostre. L’obiettivo di Pallucchini è quello di aggiornare il gusto degli artisti e del pubblico italiano rispetto a quanto successo nei primi cinquant’anni del XX secolo, facendo recuperare all’istituzione veneziana la perduta credibilità internazionale sul piano delle scelte artistiche. 
Nonostante la Repubblica, dal punto di vista formale la struttura della Biennale rimane immutata: si aggiornano le cariche rispetto al nuovo ordinamento repubblicano, ma sostanzialmente il senso della riforma fascista non viene per nulla intaccato. La Biennale continua così ad essere legata al potere centrale, e la reiterata nomina del commissario straordinario per diversi anni dalla conclusione del conflitto pone di fatto l’istituzione al di fuori della legalità del paese.
Pallucchini organizza fino al ’56 una serie di importanti manifestazioni che non mancano di scatenare polemiche e divisioni sulla stampa nazionale e internazionale. Dalla fine degli anni ’50 vengono presentate in parlamento una serie di  proposte di legge per rendere la Biennale autonoma dalle ingerenze politiche. 
Dal 1957 Gian Alberto Dall’Acqua è nominato Segretario Generale. Sarà proprio con Dall’Acqua che inizierà l’apertura della Biennale verso le esperienze artistiche di più stretta attualità: il 1964 vede infatti l’assegnazione del Leone d’Oro per la pittura allo statunitense Robert Rauschenberg. La vittoria scandalizza gran parte della critica europea, sancendo di fatto la città di New York come nuovo centro di ricerca artistica e inaugurando la stagione artistica delle neo-avanguardie. 
Nel 1968 al grido “Biennale dei padroni / bruceremo i tuoi padiglioni”, artisti e studenti manifestano nei Giardini della Biennale e in Piazza San Marco contro la politica dell’istituzione.
Un sistema più trasparente nella nomina degli artisti, la chiusura dell’ufficio vendite (considerato il simbolo del controllo del mercato sulla Biennale), la richiesta di abolizione dei premi per i migliori artisti e la necessità di riformare l’ente sono alcune delle rivendicazioni avanzate dalle proteste di studenti, artisti e uomini di cultura. 
Non senza qualche ambiguità, vista la stretta relazione che molti artisti avevano con il sistema internazionale dell’arte, in occasione dell’apertura della mostra vengono ritirate molte opere in segno di protesta contro ciò che la Biennale rappresentava e contro la presenza dei presìdii di polizia all’interno e alle porte dei Giardini. 
L’edizione del 1968, con le sue proteste e tensioni, costringerà il potere centrale e la Biennale stessa a riflettere con attenzione sul proprio futuro di istituzione culturale. Dopo alcuni anni di assestamento viene varata la riforma dell’Ente: è il 1973.
A trentacinque anni dalla legge fascista che ne aveva mutato l’organizzazione, la Biennale ha finalmente un nuovo statuto che ne riconfigura la fisionomia. Il consiglio direttivo si espande fino a comprendere 19 membri rappresentativi del governo centrale, della regione Veneto, della provincia e del comune di Venezia, cioè gli enti pubblici che finanziano l’istituzione. Accanto a questi si aggiungono i rappresentanti dei tre sindacati maggiori e un rappresentante sindacale dei dipendenti Biennale. Questo nuovo apparato, nonostante la maggior democraticità e rappresentatività delle diverse realtà inserite nella vita della Biennale, evidenzia presto i suoi limiti, in parte dovuti alle dimensioni, che rendono difficile prendere qualsiasi decisione, in parte alla spartizione politica delle cariche che spesso paralizzano la vita e le decisioni del Consiglio Direttivo stesso.  Al di là di questi problemi organizzativi, la Biennale dal ’74 in poi, sotto la guida di Carlo Ripa di Meana e con la direzione di uomini come l’architetto Vittorio Gregotti e Wladimiro Dorigo alla guida dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (A.S.A.C.) inizia un’opera di rivoluzione della programmazione recependo molte delle istanze dei movimenti di protesta del ’68. 
Nel ’74, per la prima volta nella storia della Biennale, si decide di non organizzare la manifestazione ai Giardini dando un taglio fortemente politico: la Biennale invade campi e calli veneziane organizzando convegni e interventi artistici contro ogni forma di fascismo e in particolare protestando contro il colpo di stato cileno a cui sono dedicate tutte le attività del ’74. 
Nel ’75, in seguito alla morte di Francisco Franco viene organizzata una mostra sull’arte spagnola, all’indomani del ritorno della democrazia, mentre nel ’76 viene organizzata una delle più importanti mostre tematiche: Ambiente Arte in cui Vittorio Gregotti riesce a coinvolgere anche i rappresentanti internazionali dei padiglioni nello sviluppo di progetti che si richiamino al tema principale. Nel padiglione Italia, Germano Celant presenta, accanto agli allestimenti storici delle avanguardie di inizio secolo, dodici artisti del presente che si confrontano con lo spazio del padiglione rileggendolo alla luce delle esperienze che sin dagli anni ’60 hanno interessato l’arte contemporanea. 
Con l’organizzazione nel 1977 della “Biennale del Dissenso”, in cui si ospitano intellettuali fuoriusciti dall’Unione Sovietica e dagli stati satelliti, si innescano una serie di proteste che giungeranno fino al parlamento italiano e porteranno Ripa di Meana a presentare le dimissioni.
Con il 1978 e la fine del mandato di Carlo Ripa di Meana a Presidente della Biennale, inizia un periodo di ritorno all’ordine che interesserà la Biennale fino agli inizi degli anni ’90, con alcuni significativi momenti di rottura di questa tendenza. Abbandonato il rapporto con la città, l’associazionismo, la stretta attualità e la posizione ideologica e politica molto forte rispetto alle situazioni antidemocratiche presenti nel mondo, la Biennale sceglie di ritornare nelle sue sedi tradizionali e riavviare un discorso più legato alla realtà storico artistica del presente.
Una delle più interessanti novità sarà nel 1980 la creazione della sezione dedicata ai giovani, “Aperto ‘80” curata dal Harald Szeemann e Achille Bonito Oliva. La giovane arte internazionale entra a pieno titolo nelle manifestazioni della Biennale dando vita a uno dei luoghi più interessanti per l’incontro del pubblico e degli specialisti con le ultime tendenze contemporanee. La sezione “Aperto” godrà di grande fortuna per tutti gli anni ’80, scatenando spesso violenti polemiche per le opere presentate o per le ricerche artistiche proposte.
Il 1980 è l’anno in cui Paolo Portoghesi organizza alle Corderie dell’Arsenale la “Strada Novissima”, consacrando a livello internazionale il movimento postmoderno. Dal 1982 l’Arsenale diventerà sede delle attività della Biennale Arti Visive ampliandosi di anno in anno tramite il restauro di nuove aree del complesso architettonico veneziano.
Negli anni ’80 si susseguono alla guida della Biennale Arti Visive Luigi Carluccio (1980-1982, morirà pochi mesi prima dell’inaugurazione di quest’ultima), Maurizio Calvesi (1984-1986) e Giovanni Carandente (1988 – 1990). Con la seconda Biennale curata da Maurizio Calvesi vengono reintrodotti i premi per i migliori artisti e per la miglior partecipazione nazionale, confermando così il definitivo distacco dalle posizioni assunte dall’istituzione agli inizi degli anni ’70 sotto le pressioni del ’68.
Per far coincidere il centenario della Biennale con il 1995 si decide di spostare l’edizione del 1992 al 1993, anno in cui Achille Bonito Oliva organizza “Punti Cardinali dell’Arte” rivoluzionando il concetto stesso della Biennale. Per la prima volta infatti vengono organizzate numerose mostre con la collaborazione di diversi giovani curatori. Bonito Oliva cerca dunque di rendere effettivamente internazionale una manifestazione che di fatto fino ad allora era stata sempre focalizzata su quanto accadeva in Europa, America Settentrionale e Giappone. Achille Bonito Oliva inoltre collabora effettivamente con i commissari dei padiglioni stranieri convincendoli a presentare nelle loro sedi artisti originari di altri paesi ma ad essi legati in qualche altro modo. La Germania, per esempio, ospita Nam June Paik e Hans Haacke: il primo di origine coreane residente in Germania, il secondo nato in Germania ma residente negli Stati Uniti.
Recependo in parte le esigenze culturali di più stretta attualità, il dibattito sul postcolonialismo diffusi dalla metà degli anni ’80 con le Biennali dell’Havana e di San Paolo, Bonito Oliva inoltre apre la Biennale alle problematiche della globalizzazione, le cui conseguenze erano sempre più evidenti dalla caduta del muro di Berlino in poi.  
Nel 1995, anno del centenario, direttore della mostra è il critico Jean Clair, il primo direttore internazionale, che si interroga sul corpo umano e sul contribuito dato dai nuovi media nella mutata percezione che di esso abbiamo. Riformulando la mostra in senso più strettamente storico, legato alle maggiori avanguardie e neoavanguardie europee, Clair elimina la formula di “Aperto” che dopo quindici anni cesserà di esistere alla Biennale. 
Germano Celant, nel 1997, a seguito delle crisi interne del Consiglio Direttivo, viene nominato direttore del settore arti visive a soli quattro mesi dall’inaugurazione. La mostra riflette gli sviluppi artistici degli ultimi trent’anni, ma l’impianto e la mancanza di tempo restituiscono un’esposizione dal taglio fortemente museologico. La crisi che aveva portato all’elezione di Celant a pochi mesi dall’inaugurazione evidenzia ancora una volta le difficoltà dell’impianto dell’istituzione che dal 1973 aveva dovuto fronteggiare un crescente numero di problemi legati da un lato alle pressioni dei diversi gruppi politici rappresentati all’interno del consiglio direttivo, dall’altro alle modalità di finanziamento della Biennale stessa che dipendeva in gran parte dai contributi pubblici e aveva limitata libertà di ricerca di altri tipi di entrate. 

Il 1998 è l’anno in cui viene promossa una nuova riforma e la Biennale si trasforma in “Società di Cultura”. Questo tipo di organizzazione prevedeva la presenza dei tradizionali rappresentanti di Stato, Regione, Provincia e Comune più un direttore di nomina ministeriale. Ai privati era consentito partecipare con sostanziosi contributi economici, ma non era riconosciuto alcun diritto di presenza all’interno dei consigli della Biennale. Rimanendo di fatto pubblica nella gestione e aprendo contemporaneamente al contributo dei privati, l’istituzione veneziana si trovava però di fatto ancora una volta in una posizione ambigua, resa ancora più evidente dal legame diretto con il mondo politico italiano, cosa che sin dal dopoguerra, nelle innumerevoli richieste di trasformazione dell’ente, si era sempre evitato di fare. I privati inoltre, non avendo alcuna possibilità di essere rappresentati negli organi decisionali, erano così fortemente restii alla sponsorizzazione delle attività dell’ente.
Con la riforma viene inoltre adeguata la stessa Biennale alla mutata situazione politica italiana, che, da Tangentopoli in poi, si reggeva di fatto su una sorta di bipolarismo che aveva sostituito il sistema politico precedente. Paolo Baratta (presidente della Biennale) nomina direttore del settore Arti Visive per due anni consecutivi Harald Szeemann che nel 1999 organizza una delle più riuscite Biennali degli ultimi anni. Con il titolo dAPERTutto, Szeemann vuole rievocare la sezione “Aperto” sottolineando come ai giovani e alle nuove ricerche sia riconosciuto lo stesso diritto dei maestri a occupare gli spazi principali della mostra. Riflettendo il modello del curatore indipendente e la sua attitudine a organizzare la mostra che parta da una visione personale, Szeemann segna un momento fondamentale anche nella storia della curatela dell’istituzione, dimostrando i limiti di un singolo direttore di recepire da solo i movimenti e le tendenze artistiche in atto a livello globale.
Nel 2003 Francesco Bonami è il nuovo direttore del settore arti visive che, rivoluzionando l’impianto della Biennale, chiama undici curatori a creare dieci mostre indipendenti tra gli spazi dell’Arsenale e dei Giardini. Al modello chiuso della mostra internazionale organizzata da un unico curatore o da diversi curatori sotto la guida del direttore, si sostituisce invece la creazione di eventi indipendenti che confermano da un lato l’internazionalità della Biennale (per le origini diverse dei curatori) e dall’altro la crisi di un modello di curatela centralizzato in grado di imporre la propria visione ai fenomeni globali.
Nel 2004 viene infine approntata una nuova riforma dell’istituzione che da “Società di Cultura” viene trasformata in Fondazione. Sempre dipendente dal settore pubblico nel suo assetto dirigenziale, la Biennale può usufruire più agevolmente dei capitali privati, continuando però a occupare una posizione ambigua rispetto alla realizzazione della sua vocazione di istituzione legata alla promozione della cultura contemporanea internazionale e al contesto locale.

  
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